Da mercoledì 9 settembre è disponibile su Netflix The Social Dilemma, un documentario molto interessante su come i social network hanno cambiato la società. A renderlo degno di nota il fatto che gli intervistati siano in larga parte ex ingegneri e manager di Google, Facebook, Pinterest, Twitter e che in alcuni casi abbiano partecipato in prima persona alla nascita di alcune delle caratteristiche che hanno reso i social onnipresenti.
L’intento è quello di fornire un punto di vista inedito su qualcosa che abbiamo perennemente tra le mani e tramite cui svolgiamo non solo molte delle nostre azioni, ma attraverso cui ci apriamo a riflessioni personali, comunichiamo il nostro stato sentimentale, diffondiamo immagini dei nostri figli e, soprattutto, ci informiamo.
La missione iniziale della rete e dei social era nobile: connettere le persone di tutto il pianeta, sfruttare la tecnologia per il bene, unendo le forze, favorendo vicinanza e creatività e invece, il mezzo, sembra essere sfuggito di mano ai loro stessi creatori che nel documentario appaiono quasi “pentiti” a tal punto che, per dilemmi etici, alcuni di loro hanno deciso di non lavorare più a tali progetti, dedicandosi al contrario a fare qualcosa per cambiare la situazione in atto.
Stiamo da anni assistendo (passivamente) a livello globale è un cambiamento epocale: i social stanno modificando il nostro modo di pensare e vivere.
Ad esempio vi siete mai chiesti come guadagnano i social? Come mai non paghiamo per usufruire dei servizi che offrono? La risposta è semplice: “Se non stai pagando per un prodotto, allora il prodotto sei TU”.
Un concetto non nuovissimo ma approfondito da The Social Dilemma: “Il vero prodotto è quel cambiamento graduale, sottile e impercettibile nei tuoi comportamenti e nella tua percezione”, spiega Shoshana Zuboff, autrice del libro Il capitalismo della sorveglianza è questo il nuovo mercato: un mercato in cui la merce trattata è il futuro degli esseri umani.
Ogni azione che facciamo sul web viene registrata e catalogata da sofisticati computer e, grazie a complessi algoritmi, viene usata a fini utili a generare profitti. In pratica Facebook, così come Google e altre piattaforme ci fanno vedere solo cose che ci interessano in modo da spingerci a stare sempre più connessi. Si tratta di tecnologia persuasiva, utile a modificare il comportamento delle persone.
E coloro che hanno deciso di non lavorare più a livelli molto alti e molto ben pagati nel settore attualmente più all’avanguardia dell’Occidente la pensano quasi tutti allo stesso modo: i social hanno preso una direzione e assunto una dimensione che quasi nessuno si aspettava, comportando una serie di conseguenze che influenzano il presente in modo tutt’altro che moderato.
Si, perché è noto che i social favoriscono la polarizzazione delle opinioni mostrando agli utenti solo quello che conferma le loro convinzioni. L’intelligenza artificiale ci sta già governando, affermano gli esperti interpellati dal documentario, e tenta in tutti i modi di cambiarci per interessi commerciali.
Se provate a scrivere:“cambiamenti climatici” quello che vi apparirà dopo dipende molto da quello che avete cercato in precedenza, da dove vi trovate e da altro. A seconda di chi siete e da dove digitate, il completamento automatico potrebbe suggerirvi “è una bufala” oppure “sta causando la distruzione della natura”. Non dipende quindi dalla verità di come stanno le cose ma dal personale tipo di interessi dell’utente.
Ne deriva che ognuno dal proprio pc o smartphone vede mondi completamente diversi (anche rispetto a quelli degli amici), creati da algoritmi perfetti per ciascuno. Una sorta di Truman Show in cui ognuno ha la propria realtà, manipolata nello stesso modo in cui farebbe un mago.
Il pericolo di questo è che smettiamo di essere obiettivi e costruttivi, vediamo le cose solo da un punto di vista, quello che ci siamo (o ci hanno) creato.
Inoltre ormai è dimostrato che le dinamiche innescate dai social hanno lo stesso effetto delle droghe. Piacere, dipendenza, assuefazione sono conseguenze tangibili, un problema di cui tutti ci rendiamo conto ma che nessuno sembra voler risolvere, men che meno i vertici di Google. D’altronde, come dice Tristan Harris, l’inventore del like button intervistato nel documentario: “Noi volevamo solo spargere amore”.
Su questo nel docufilm vengono condivise alcune statistiche degne di nota. Nell’ultimo decennio, ovvero da quando i social sono entrati nella nostra vita quotidiana, il tasso di suicidio delle adolescenti è aumentato esponenzialmente: del 70% per le 15-19enni e del 154% per le 10-14enni. Sottolinea lo psicologo Jonathan Haidt, che la generazione Z, quella nata a metà degli anni ‘90, è la prima ad aver avuto i social media alle medie/superiori. L’uso intensivo dei social ha portato a maggiori livelli di depressione, ansia e difficoltà nelle relazioni sociali. E anche laddove non ci sia la pubblicità, dice Harris, uno strumento come YouTube for Kids rimette nelle mani dei bambini uno strumento che crea dipendenza.
Il punto di “The Social Dilemma” non è fare un manifesto anti-Zuckerberg. La questione semmai è fare un percorso a ritroso e interrogarci su questi temi chiave, perché volenti o nolenti ci siamo dentro fino al collo e le nostre vite, grazie alla tecnologia, sono per certi aspetti innegabilmente migliorate, ma dobbiamo tenere sotto controllo anche questi che si potrebbero definire effetti indesiderati. Forse servirebbe un’istituzione che stia al di sopra dell’interesse economico di aziende private da miliardi di dollari di fatturato e che ponga dei limiti alla pura speculazione, che tuteli quindi gli utenti e che ridia precedenza negli interessi a noi esseri umani prima che al profitto.
Un documentario che tutti dovrebbero vedere, quanto meno per prendere coscienza e scegliere con maggiore consapevolezza se e in che modo continuare ad utilizzare i social e la rete.